Recensione “La forma dell’acqua”

 

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di Danilo Gatto

Foto di Gloria Glorius

 

-L’articolo contiene spoiler-

Sarebbe riduttivo parlare de “La forma dell’acqua” di Guillermo del Toro da un punto di vista esclusivamente qualitativo, e questo nonostante si tocchino vette di assoluta meraviglia sotto diversi punti di vista, come testimoniato dai quattro Premi Oscar appena vinti (miglior film, miglior regista, migliore scenografia, miglior colonna sonora). E sarebbe riduttivo parlarne anche dal punto di vista dell’interpretazione dei personaggi: Sally Hawkins, che interpreta la protagonista Elisa Esposito, trasmette emozioni limpide nel fotografare la condizione di una donna affetta da mutismo a causa della recisione delle corde vocali avvenuta quand’era ancora bambina; Richard Jenkins, celebre per il ruolo di “spettro” nella fortunata serie TV dei primi anni duemila “Six feet under”, è Giles, pittore omosessuale poco incline alla vita sociale anche a causa del timore di veder smascherata la propria “diversità” in un contesto storico in cui le persone gay, esattamente come i neri e le nere, non possono sedere al bancone di un “locale per famiglie”; Michael Shannon, cui madre natura ha donato un viso particolarmente incline alla perfidia, è invece il colonnello Strickland, violento supervisore della sicurezza nella delicata operazione di studio di un soggetto, a metà tra l’umano e l’animale, prelevato dai fiumi dell’Amazzonia e attorno a cui ruota l’intera trama del film.

Non è però riduttivo parlare dei pilastri attorno a cui viene eretta l’opera di del Toro, pilastri di cui, forse, lo stesso registra, figlio di storie di immigrazione e quindi testimone del dramma dell’esclusione, non ha tratto tutte le rivoluzionarie conseguenze. Pilastri che gettano le basi per una decostruzione violentissima dell’idea di “Uomo” e di tutto ciò che, storicamente, è venuto a costruirglisi intorno. Pilastri che, ancor prima di essere strumenti, sono parole mai del tutto innocenti: “Potere” e “Animale”.

Il potere è ciò che permea fortemente il rapporto tra i personaggi, il medium attraverso cui si manifesta una degradazione animalesca, il ristagnare in una quasi-umanità che è certamente esclusione da una sfera di considerazione morale e politica.

La creatura rinchiusa nel laboratorio non è che un animale vivisezionabile, il cui motivo esistenziale non ricade su sé stesso bensì sui glaciali interessi delle potenze coinvolte nella Guerra Fredda, contesto storico quasi sempre fortunato da un punto di vista cinematografico; interessi che non si fermano allo studio dell’organismo “alieno” ma che ne hanno già programmato la scomparsa per non favorire il diretto concorrente nell’odissea spaziale. L’animale è destinato a morire perché “non è nemmeno umano”, come risponde Giles ad Elisa quando questa gli chiede un aiuto per liberarlo. “È un animale, lo sto domando” afferma il colonnello Strickland, a ribadire il confine che la parola e l’esistenza “animale” (un affronto, un qualcosa di offensivo) segna tra il diritto alla vita e il dovere della morte, confine non esclusivamente rintracciabile nel trattamento riservato all’animale\mostro ma presente in tutti i rapporti che il colonnello intrattiene con gli altri personaggi: Dio “è umano, assomiglia a un essere umano, come me o come te; forse più come me, immagino” dice riferendosi a Zelda, donna nera amica e collega di Elisa; se Dio è fatto a immagine e somiglianza dell’”uomo” ecco che chiunque non lo rispecchi fedelmente è un po’ meno umano e, di conseguenza, un po’ più animale.

È proprio il personaggio di Strickland a incarnare quelle incrostazioni del potere generatesi e riprodottesi storicamente: è un maschio bianco, tutto d’un pezzo, rigido, per nulla incline al sentimentalismo, con la mano stretta sempre intorno a un manganello la cui forma, non a caso, ricorda quella di un fallo. Mano che, però, deve dire addio a due dita strappategli dal “mostro”, mancanza che, stando alle parole del colonnello, non pregiudica le sue “attività per la fica” (precisazione doverosa vista la sua indole sfacciatamente machista) ma che, in realtà, lo trascina all’interno di un’instabilità generata dal suo non esser più completo, intero, tutto d’un pezzo, in sostanza, “uomo”. Mancanza e instabilità che tenta di compensare con l’acquisto di un’auto nuova, una Cadillac di un turchese che ricorda molto il colore dell’acqua, e con la lettura di “The power of positive thinking”. Proprio la “mancanza” è ciò che caratterizza la protagonista del film, Elisa, che, come detto, fin da piccola deve fare i conti con una condizione di mutismo. Il colonnello Strickland, non appena viene a conoscenza della sua “diversità”, sente una forte attrazione nei confronti di questa donna “che pulisce la merda e lava il piscio”, questa donna che è su un gradino inferiore della scala evolutiva (non parla) e sociale e che stuzzica il suo insaziabile desiderio di dominio: lui, col suo fallo un po’ manganello, un po’ dito indice di Dio nella “Creazione di Adamo”, la farebbe gemere nonostante lei sia incapace di emettere suoni. Strickland mira l’onnipotenza, Strickland “risolve”.

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La vita della protagonista, invece,  è rigidamente regolata dal tempo e ogni giorno inizia alla stessa maniera: suona la sveglia, qualche minuto di masturbazione nella vasca, la colazione, il foglio del calendario strappato con dietro scritta la “frase del giorno”, la visita al suo vicino di casa Giles, l’autobus per andare a lavoro, ecc… Proprio il lavoro, che consiste nella pulizia dei locali di un enorme laboratorio, fucina di esperimenti per lo più militari, ha fortemente a che fare con l’acqua, elemento da cui è stata prelevata da piccola e nel quale ritornerà, alla fine, assieme al “mostro”, conosciuto proprio tra quelle mura e il cui legame si basa sulla comunanza nella mancanza: entrambi non parlano. Ecco, quindi, che il loro legame, fondato sul linguaggio dei segni e sullo scambio di emozioni tramite la musica, viene a porsi come un attacco al logocentrismo, alla pretesa che il comunicare debba necessariamente essere orale o scritto e, quindi, propriamente umano. Un comunicare che si concretizza nell’atto sessuale tra i due, la cui differenza morfologica è scaraventata a lato da un’animalità prepotente che diviene, allo stesso tempo, premessa e conseguenza dell’amore, un’animalità niente affatto intesa come degradazione e scadimento nelle pulsioni bensì come unica e gioiosa possibilità del rapportarsi.

La solitudine dell’incomunicabilità è la base di un amore che smonta ogni sua rigida rappresentazione, rendendolo fluido e interspecifico e in netto contrasto col modello prevalente della famiglia tradizionale eteronormata. Modello a cui, com’è ovvio, partecipa il colonnello Strickland, con la sua famigliola da rotocalco americano; modello a cui deve rifarsi anche Giles, pittore omosessuale, il cui lavoro è quello di dipingere una classica famiglia eterosessuale intorno a un piatto di gelatina; modello da cui, però, è sin da piccola esclusa Elisa, orfana (il suo cognome è Esposito, solitamente attribuito agli orfani) e “figlia del fiume”, proprio come il “mostro”.

Ma c’è un altro personaggio le cui azioni e parole incatenano a una sedia e costringono a riflettere. È il dottor Bob Hoffstetler, in realtà Dimitri, scienziato sovietico “travestito” da americano e inviato negli Stati Uniti come spia dal governo russo. Il suo ruolo nell’economia dell’opera è centrale. Dimitri dimostra fin da subito un approccio alla scienza e alla conoscenza profondamente antitetico rispetto a quello dei suoi colleghi in laboratorio e dei mandanti sovietici; egli si accorge molto presto della complessità e meraviglia dell’organismo “mostruoso”, anche spiando le interazioni di questo con Elisa, e sviluppa un sentimento empatico che è l’unico argine alle torture inflittegli da Strickland mentre è ancora prigioniero nel laboratorio. Dimitri diviene il simbolo di una scienza che sotto il regno del capitale non può che perire (il suo omicidio da parte dei sovietici è emblematico in tal senso), una scienza che non mira alla messa a valore delle scoperte, né intende contribuire alla vittoria di un capitale sull’altro, ma che coltiva la conoscenza per la conoscenza, nello spirito antico di un osservatore di stelle che, guardando a esse, si domanda la meraviglia; una scienza che, grazie al conoscere, sviluppa il sentimento e l’immedesimazione, il potere di non potere, e porta chi la pratica ad agire di conseguenza; una scienza che non è e chissà sei mai sarà.

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Dimitri è determinante nella liberazione del “mostro”, evento catartico a cui i rappresentanti delle minoranze partecipano in una sorta di “parata degli oppressi” in cui l’individuo liberato non è che il portone di una liberazione che va decisamente oltre l’atto, una  liberazione totale.

L’Animale unisce, raccoglie, organizza, getta le basi per la dissoluzione dell’Altro e la ridefinizione del rapportarsi. L’Animale cura. Non a caso il “mostro” ha poteri curativi e salva la vita ad Elisa, colpita nello stomaco da un proiettile di Strickland, sgozzato subito dopo dal “mostro”. L’Animale annienta. L’Animale annienta chi annienta.

“La forma dell’acqua” non è, quindi, una forma estetica, un qualcosa di visibile o misurabile; “la forma dell’acqua” nutre uno spazio intangibile in cui si infila l’Animale senza forma, liquido, l’unico e solo continuum relazionale tra i corpi. Come l’acqua assume la forma del contenitore in cui viene a trovarsi, l’Animale ottiene la forma del corpo in cui s’incarna ma, più di tutto, definisce lo spazio che intercorre tra questi “incarnarsi” disincarnandosi.

Danilo Gatto

Foto di Gloria Concutelli (Glorius)

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