Pubblichiamo la recensione presente su rivista anarchica anno 49 n. 432 marzo 2019 (http://www.arivista.org/?nr=432&pag=69.htm#1)
di Marco Piracci
L’uscita del volume Xenofemminismo (di Helen Hester, Nero, Roma 2018, pp. 164, € 15,00) sembra collocarsi in un quadro tanto nuovo quanto fortemente problematico. Le proposte avanzate nel testo si possono inscrivere all’interno del movimento culturale transumanista che considera indesiderati alcuni aspetti del corpo naturale e da ciò ne fa derivare una prospettiva di trasformazione post umana.
Ci tengo a precisare che se fino ad alcuni anni fa questo tipo di proposte erano considerate, per lo più, stravaganze di un piccolo nucleo di teoriche e teorici accademici, oggi sembrano, invece, ottenere un consenso sempre più diffuso. Mi sembra, infatti, che queste prospettive inizino a influenzare non solo l’area postfemminista e transfemminista, ma perfino alcune aree interne al movimento anarchico come il queer-movement e il giornale Umanità Nova (dove possono essere letti alcuni articoli in favore dell’orizzonte transumanista). È un aspetto inedito, che a mio avviso non si dovrebbe sottovalutare. Come ha ben sottolineato anche Alex B., uno degli autori più apprezzati nell’arcipelago LGBTQIA1: “Alcuni degli articoli, delle riviste o dei libri che sostengono tesi transumaniste o post-umaniste in chiave femminista/queer cominciano a trovare spazio e legittimità anche in luoghi e situazioni di attivismo e di critica al sistema.2”
Lo xenofemminismo si dichiara in forte disaccordo con le componenti essenzialiste, ecofemministe, primitiviste e più in generale con l’arcipelago ecologista. Si definisce: “una forma di femminismo tecnomaterialista, antinaturalista e abolizionista del genere3”. Può essere considerato un tentativo d’interpretazione e integrazione del cyberfemminismo e in particolare delle opere di Shulamith Firestone e Donna Haraway che più volte vengono citate nel testo. Queste teoriche avevano ravvisato nell’innovazione tecnologica il perno tramite il quale contrastare le condizioni sociobiologiche oppressive. Spingendosi oltre, lo xenofemminismo rivendica una “Politica per l’Alienazione4” intesa come trasformazione della natura esterna e interna: “Il nostro destino è legato alla tecnoscienza, dove nulla è tanto sacro da non poter essere riprogettato e trasformato in modo da allargare la nostra prospettiva di libertà5”.
Questa proposta ritiene che l’aspetto centrale per la liberazione femminile consista nella modifica della natura stessa del corpo della donna tramite l’utilizzo delle tecnologie. Hester si concentra in particolare su due proposte.
La prima è quella di contrastare il ciclo mestruale tramite lo sviluppo dello strumento Del-Em (un dispositivo che permette l’aspirazione del mestruo per mezzo di cannule e siringhe) al fine di limitare lo stato di differenziazione biologica che a suo parere incide sui ritmi vitali.
La seconda è quella di contrastare e superare la gravidanza considerata, riprendendo la definizione di Firestone, “la deformazione dell’individuo nell’interesse della specie6”. Per questa motivazione è fortemente sostenuta l’ectogenesi ossia la riproduzione che non avviene all’interno dei corpi delle donne, ma in un ambiente artificiale. Lo xenofemminismo è infatti convinto che “i sistemi socio-tecnici si prestano più chiaramente a una politica antinaturalista7” e dunque “considerare il corpo come un potenziale luogo di intervento tecnopolitico femminista può essere uno strumento per rifiutare l’inevitabilità della sofferenza8”.
Questo tipo di lettura trova un’eco anche nelle proposte di Carlo Flamigni, figura di primo piano dell’associazione Luca Coscioni legata al Partito Radicale, il quale da tempo sostiene che i modelli di ectogenesi “consentiranno alle donne di sottrarsi alla schiavitù delle gravidanze9”.
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